Come mi ritrovo nelle tue parole Silvi. Più vedo odio che genera odio e accanimento gratuito verso il prossimo, più mi passa a volte lo stimolo per tornare qui stabilmente. È una lotta interiore continua, davvero..
Questo è un messaggio di Valeria, una persona che stimo molto, professionista del digitale e ormai anche un’amica, che commentava le mie stories di qualche giorno fa sull’odio che vedo espandersi a macchia d’olio su Instagram, questa volta in relazione al genocidio che si sta consumando a Gaza.
Un messaggio, il suo, che parla la lingua di molti.
E che sottolinea un fattore crucialmente importante: non avere lo stimolo di stare online perché farlo è diventato insostenibile.
Ora, se passi tempo online solo per intrattenerti, smettere di usare i social non può farti che bene.
Ma se sei online per lavorare, come me e come la ragazza che mi ha scritto, allora diventa un problema.
E quindi oggi vorrei proprio parlare di questo: come trovare il proprio equilibrio e vivere serenamente il proprio lavoro sui social media quando siamo costantemente influenzati da trend e pressioni di ogni genere?
Come evitare di sentirsi in colpa a causa dell’opinione altrui?
Come gestire attacchi e minacce che arrivano da ogni voce che si innalza su un pulpito in nome di presunta giustizia e moralità?
Una premessa. Vorrei dirti che ho una risposta a tutto questo ma in verità non ce l’ho.
Io per prima sono vittima di molti di questi avvenimenti.
E nonostante un discreto livello di consapevolezza circa quelle che sono le dinamiche della comunicazione online, mi capita di sentirmi in colpa e in difetto.
Ma partiamo dalle origini.
Qual è stato il trigger?
I social media sono continuamente investiti da trend che letteralmente incendiano l’opinione pubblica dividendola in fazioni antagoniste.
Lo vediamo in merito a tutte le questioni portate ai nostri occhi dal mondo dell’informazione.
Questa volta a muovere il grilletto è stato il conflitto israeliano palestinese, o più appropriatamente, il genocidio della popolazione palestinese che si sta consumando a Gaza guidato dall’esercito israeliano.
Questa tragedia ha alimentato le prese di posizione più disparate, (che non intendo menzionare in questo contenuto perché esulano il punto del pensiero che voglio trasmettere e che invece riguarda la comunicazione).
Tra queste, c’è stata la divisione tra content creator che ogni giorno condividono notizie, fatti e contenuti relativi al conflitto e quelli che invece hanno scelto di non mostrare in pubblico il loro posizionamento sul tema o che si limitano a condividere contenuti di giornalisti che seguono ma senza esprimere il loro pensiero.
Insieme a questo diverso posizionamento è nata, da parte di chi ha scelto di divulgare, una comunicazione parallela alla prima, che sottolinea la responsabilità individuale di prendere parte in merito ai fatti che stanno accadendo e di far sentire la propria voce per far cessare il conflitto.
Fino a qui sembrerebbe tutto lecito, se non fosse che questi messaggi sono stati spesso intrisi d’odio e di violenza e hanno suscitato ancora più violenza da parte del pubblico, che si è trovato parte di una ulteriore polarizzazione: condividere il pensiero di chi parla o quello di chi tace.
E i creator che hanno scelto il silenzio? E i professionisti che usano Instagram per parlare del proprio lavoro?
Qui sta Valeria, qui sto io e qui stanno tutte le persone che non portano online tutto quello che vivono, sentono provano o pensano.
Quelle oggetto di questa critica, quelle cui sembra strano pubblicare una storia del conflitto e poi subito dopo una della loro giornata in famiglia, quelle che hanno paura di esprimere un pensiero che venga frainteso perché consapevoli di essere su un fast content medium, dove nessuno si sofferma a riflettere, ma tutti sono pronti a metterti alla gogna.
Quelle che, come diceva Sabrina Barbante nel suo podcast, “probabilmente non se la sentono di esprimere un parere oggettivo in 30 secondi di storia su Instagram, su una questione che è di una complessità tale da mettere seriamente in difficoltà anche un esperto di geopolitica”
Qui stanno tutte le persone che hanno il sacrosanto diritto di usare i social media come preferiscono e di lasciare alla loro sfera privata drammi, momenti di gioia, ma anche la sofferenza per quello che accade continuamente nel mondo.
Dove ci sono guerre che fanno rumore e che ci vengono raccontate ogni giorno e dove ce ne sono purtroppo molte altre silenziose che si consumano lontano dai nostri occhi insieme ad altre tantissime ingiustizie.
E allora si deve restare impassibili?
Smettere di informarsi? Smettere di agire? Di prendere posizione?
La mia risposta è decisamente no.
Al di là di quelle briciole che mostro sui social io sono una persona estremamente partigiana nel senso letterale del termine. Mi schiero e prendo parte.
Ho vissuto nella mia sfera privata ardue battaglie femministe . Sto costruendo un modello di business basato sulla solidarietà e sullo sviluppo comunitario.
Ho scelto di non intraprendere determinati percorsi lavorativi proprio per mantenere la mia libertà di pensiero e di azione, proprio perché credo che le azioni abbiano un impatto determinante sulla società.
E allora dov’è la risposta?
Dobbiamo ripensare l’attivismo? Postare sui social è attivismo?
Prima di tutto credo sia importante chiedersi se quella che implementiamo oggi sia o meno una forma di attivismo, e se decidiamo che la risposta è sì, allora dobbiamo chiederci se non valga la pena ripensarne il modus operandi, perché quello attuale fa crepe da tutte le parti.
Non solo non porta a nessun risultato concreto, ma per di più alimenta l’odio e la sofferenza di persone comuni.
Perché non ce la raccontiamo, chi vuole la guerra se ne sbatte dei commenti d’odio che legge online.
Chi ne rimane ferito è la persona che si rivolta nel letto la sera ripensando ai tre telegiornali che ha seguito durante la sua giornata coltivando frustrazione e impotenza per un mondo che spesso agisce al di fuori del controllo di noi singoli individui.
La mia posizione su questo è netta:
No alla violenza.
No a un linguaggio che incita violenza.
No alla guerra psicologica.
Si alla presa di posizione.
Si alla divulgazione di informazioni e notizie che aggiungono valore al ricevente.
Si al confronto critico e aperto. Si alla gentilezza.
L’odio alimenta odio che porta al conflitto.
E solo nel momento in cui saremo capaci di sradicare il conflitto dal nostro vivere quotidiano, solo nel momento in cui saremo in grado di ascoltare il pensiero degli altri, accettare di essere in disaccordo e avviare sulla base di questo disaccordo un dialogo, le guerre smetteranno di esistere.
Perché se è vero che le guerre sono mosse anche da interessi economici e accordi politici, è anche vero che la matrice culturale comune a tutte è una: l’uso della violenza come mezzo di risoluzione del conflitto.
Forse non possiamo far cessare il fuoco a Gaza, ma di certo possiamo usare la nostra voce per diffondere un messaggio di pace. Non uno che alimenta una seconda guerra.
Tra l’altro, (ma questo è pane per un prossimo contenuto), odio, indignazione e rabbia, sono le emozioni che vengono stimolate intenzionalmente dal modo in cui riceviamo le notizie, proprio perché incendiano le nostre reazioni, ci portano a condividere il nostro punto di vista e in poche parole, fanno girare tanti soldi nelle tasche di qualcuno a cui conviene.
Diffondere messaggi d’odio ci porta anche ad essere vittime di strumentalizzazione mediatica. Ricordiamocelo.
Come se ne esce
Come ho detto fin da subito, non ci sono risposte facili a questa domanda. Almeno non ci sono ancora per me.
Mi sento però di condividere dei punti chiave che forse possono aiutarci:
- sviluppare o tenere a mente la propria integrità: ovvero essere consapevoli della nostra persona e agire in funzione del rispetto dei valori e delle credenze che ci guidano nel profondo. Tenerli a mente quando l’esterno (che siano i social media o il mondo) mette in discussione il nostro comportamento
- essere consapevoli di ciò che divulghiamo: quindi chiedersi sempre qual è l’impatto della nostra comunicazione. Siamo critici verso noi stessi e analizziamo che cosa producono le nostre parole al di là di quelle che erano le nostre intenzioni iniziali. Facciamolo tenendo sempre a mente le caratteristiche del contesto in cui ci muoviamo (quello del fast content dove ogni parola può essere facilmente fraintesa)
- concederci la libertà di agire come riteniamo più giusto e mettendo a tacere il resto. Questo è valido per chiunque ma in particolare per chi lavora con i social media. Ricordiamoci che il panaio accende il forno ogni notte e apre il negozio ogni mattina. Anche noi che lavoriamo online ricominciamo a vivere questi spazi come il luoghi del lavoro, dove ogni giorno dobbiamo esporre il nostro pane. Ricordiamoci che la vita è fuori e che la nostra persona, come nel caso del panaio, è molto di più di quello che sta in negozio.
Spero di cuore che questo articolo abbia portato serenità nel tuo modo di vivere il lavoro online.
Se ti va di condividere con me il tuo pensiero, ti leggo e ti ascolto a cuore aperto.
Silvi
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